Che cos’è la Terapia Cognitivo-Comportamentale?

 

 terapia cognitivo-comportamentale

Che cos’è la Terapia
Cognitivo-Comportamentale?

Mi hanno consigliato la Terapia Cognitivo-Comportamentale. Lei la fa?”. E’ questa una richiesta che in più di un’occasione mi capita di ricevere da chi, su indicazione del medico di base, di amici o di medici specialisti, mi contatta. Nel tempo mi sono fatto  l’idea che, talvolta, da una parte non ci sia molta chiarezza su cosa si trovi dietro l’etichetta “Terapia Cognitivo-Comportamentale” (TCC) nonostante la larga diffusione del termine; dall’altra che venga proposta come una sorta di panacea per ogni problema psicologico perché “efficace, rapida e supportata dalla ricerca”, come è solito trovare scritto in ogni sito che ne tratta. L’obiettivo di questo breve articolo è, pertanto, quello di toccare alcune questioni legate alla TCC e fornirne un quadro un pò più articolato. In particolare :

  • Chiarire cosa si intende per TCC
  • Descriverne gli aspetti caratterizzanti
  • Affrontare il rapporto fra TCC ed altri modelli di intervento psicoterapico

Quale Terapia Cognitivo-Comportamentale?

Il termine Terapia Cognitivo-Comportamentale, in realtà, fa riferimento ad un concetto ombrello che racchiude sotto di sè tutta una serie di modelli di intervento psicoterapico. Pertanto sarebbe più opportuno parlare di Terapie Cognitivo-Comportamentali. Cosa significa? Sono, ad esempio, Terapie Cognitivo-Comportamentali: la Terapia Razionale Emotiva Comportamentale (REBT) di Albert Ellis, la Terapia Cognitiva di A.T. Beck, la Schema Therapy di Jeffrey Young, la Terapia Dialettico Comportamentale di Marsha Linehan, la Terapia Metacognitiva di Adrian Wells, l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) di Steve Hayes per citarne solo alcune. Quindi, la prima domanda da porre sarebbe eventualmente:“Che tipo di Terapia Cognitivo-Comportamentale utilizza?”. Al di là delle differenze, a volte significative (Semerari, 2010) che contraddistinguono ogni singolo modello, è possibile riscontrare alcune caratteristiche aggreganti che giustificano la stessa etichetta di cognitivo-comportamentale. Quali, quindi, gli elementi comuni? Galeazzi e Meazzini (2009) ne propongono alcuni:

  • L’idea di fondo secondo la quale non sono gli eventi in sé a determinare i problemi psicologici, ma il modo in cui li interpretiamo.
  • La concettualizzazione dell’individuo come un sistema triadico formato da cognizioni, emozioni e comportamenti fra loro interdipendenti: modificando un aspetto si otterrà un effetto sugli altri due.
  • Ogni forma di apprendimento è resa possibile dall’intervento di processi cognitivi.
  • La possibilità, concretamente verificata, di modificare stili comportamentali inadeguati attraverso la modificazione di aspetti cognitivi, o meglio di pensieri disfunzionali/irrazionali.

Dal modello al professionista

E’ indubbio che i modelli cognitivo-comportamentali forniscano tecniche e concetti teorici utili ed efficaci nel lavoro psicoterapico dei quali io stesso faccio largo uso. Inoltre, si caratterizzano per costrutti teorici che ben si prestano alla verifica empirica. Questo, però, non significa che gli altri approcci non siano efficaci tanto quanto le terapie cognitivo-comportamentali. E questo per alcuni fattori:

  1. Forma vs contenuti. Come spesso accade nel mondo della psicoterapia, modelli di intervento diversi lo sono talvolta più nella forma che nei contenuti. Esempio emblematico è rappresentato dal confronto fra Schema Therapy e Analisi Transazionale: per moltissimi punti sostanzialmente sovrapponibili.
  2. Paradosso dell’equivalenza (Luborsky, Singer & Luborsky, 1975). L’espressione è usata per descrivere la sostanziale equivalenza fra tutte le forme di psicoterapia nella ricerca sui risultati. Questi ultimi sarebbero dovuti soprattutto ai fattori in comune alle diverse terapie, piuttosto che ai fattori specifici che le differenziano.
  3. “Mito dell’uniformità” (Lingiardi, Muzi in Fontana, 2017). Nella ricerca i pazienti vengono assegnati a tipologie omogenee di psicoterapie con diversi terapeuti come se le differenze individuali di chi conduce quel trattamento non avessero rilevanza nell’esito della terapia. In altre parole, ci si concentra sul tipo di terapia che il paziente riceve a spese di chi lo mette in atto.

Conclusione

Alla luce di quanto esposto ritengo che, se da un lato sia importante il modello seguito dallo psicoterapeuta in quanto permette di avere un’idea di massima su cosa ci si potrà aspettare dal percorso di psicoterapia, dall’altro lo sia ancora di più il modo di lavorare del professionista e il contributo del cliente al percorso di terapia. In altri termini, non sono gli ingredienti, per quanto pregiati,  a fare un buon dolce ma l’abilità del pasticcere.

BIBLIOGRAFIA

Fontana M. (a cura di) (2017), “La diagnosi e le sue implicazioni nella clinica psicoanalitica”, Roma, Giovanni Fioriti.

Galeazzi A., Meazzini P. (2009), “Mente e comportamento. Trattato italiano di psicoterapia cognitivo-comportamentale”, Firenze, Giunti.

Luborsky, L., Singer, B., & Luborsky, L. (1975). Comparative studies of psychotherapies: Is it true that “Everyone has won and all must have prizes?” Archives of General Psychiatry. 32, 995-1008.

Ruggero G.M. (2011), “Terapia cognitiva. Una storia critica”, Milano, Raffaello Cortina.

Semerari A. (2010), “Storia, teorie e tecniche della psicoterapia cognitiva”, Roma, Laterza.



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