Bene e male: un confine illusorio

 

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Bene e male: un confine illusorio

Molti individui possono agire in modo brutale nei confronti dei propri simili. Basti pensare ai carnefici dei lager nazisti, ai massacri in Ruanda o a quelli di Srebrenica durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina nel 1995. Come può essere accaduto? E’ soddisfacente la spiegazione che etichetta come criminali, malvagi e mostri gli esecutori? 

La banalità del male

Hannah Arendt (1963) ne “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, affronta il complesso processo per crimini di guerra nei confronti di Adolf Eichmann, paramilitare e funzionario tedesco incaricato di organizzare il trasporto degli Ebrei nei campi di concentramento. La tesi della Arendt è che Eichmann non fosse un “mostro”, ma una persona comune. Scrive l’autrice: ”[…] una mezza dozzina di psichiatri lo aveva dichiarato ‘normale’, e uno di questi, si dice, aveva esclamato addirittura: più normale di quello che sono io dopo che l’ho visitato” (Arendt, 1963, pp. 33-34). Una posizione analoga è quella del sociologo polacco Zygmunt Bauman (1989) il quale sostiene che la crudeltà andrebbe attribuita più alle sue origini sociali che a disposizioni sadiche di personalità disturbate.

Obbedienza all’autorità: l’esperimento di Milgram

Lo psicologo statunitense Stanley Milgram effettuò un celeberrimo esperimento sull’obbedienza all’autorità (Milgram, 1974). Con il pretesto di prendere parte ad uno studio su memoria e apprendimento, le persone venivano invitate in un laboratorio di psicologia e veniva loro assegnato il ruolo di “insegnante”. Dall’altra parte della stanza, invisibile all’occhio dell’ignaro “insegnante”, si trovava l’ “allievo” (in realtà un attore, complice dello sperimentatore). L’”allievo”, aveva il finto compito di imparare a memoria una lista di associazioni verbali. Ad ogni errore avrebbe subito una scossa elettrica di intensità variabile dai 15 ai 450 volt (ovviamente non riceveva alcuna scossa), da parte dell’ ”insegnante”. L’ ”allievo”, a 75 volt emetteva i primi lamenti; a 120 i lamenti si trasformavano in protesta verbale; a 150 cominciava a chiedere l’interruzione dell’esperimento. Le sue proteste aumentavano via via con toni sempre più veementi e commoventi fino ai 285 volt in cui non si udiva altro che un rantolo straziante. Lo sperimentatore, aveva il compito di invitare l’”insegnante” a somministrare le scosse anche di fronte alle proteste dell’ ”allievo”. Cosa accadde? La maggior parte dei soggetti portò a termine il compito, pur protestando verbalmente contro la “crudeltà” dell’esperimento e degli ordini impartiti dallo sperimentatore.

Obbedienza all’autorità: spiegazioni

Come spiegare quanto accaduto? Le conclusioni cui giunge Milgram, sono riassunte nel concetto di stato eteronomico, cioè uno stato mentale in cui una persona, quando è immersa in una situazione sociale, è disposta a regolare il proprio comportamento secondo direttive che provengono da una persona di ordine superiore. Un’affermazione tipica dei soggetti nel corso dell’esperimento era:[…] “se fosse dipeso da me, non avrei somministrato alcuna scossa all’allievo” (Milgram, 1974, p.137). Per entrare in uno stato eteronomico è necessario l’intervento di alcuni fattori:

  • percezione di un’autorità legittima;
  • adesione volontaria che ingenera un senso di obbligo (i soggetti dell’esperimento vi parteciparono volontariamente);
  • presenza di un’ideologia giustificatrice (durante l’esperimento, si agiva “in nome della scienza”).
  • l’atto stesso di obbedire (un modo per giustificare l’azione commessa è andare fino in fondo. Interrompendo, è come se il soggetto dicesse a se stesso:”Ciò che ho fatto finora è sbagliato, interrompendo sono costretto ad ammetterlo”);
  • obbligo contratto con lo sperimentatore;
  • dispersione della responsabilità (lo sperimentatore dichiarava di prendersi la responsabilità di quanto sarebbe accaduto alla vittima);
  • strategie di evitamento comportamentale o cognitivo volte a ridurre l’ansia osservata nella maggioranza dei soggetti (ad esempio, il concentrarsi sui dettagli del compito tanto da perdere di vista le sue conseguenze finali);
  • linguaggio eufemistico (da “fare del male alle vittime” ad “aiutare lo sperimentatore”, sostituendo alla sgradevole realtà, una retorica desiderabile);
  • Passi graduali (l’aumento graduale del voltaggio).

Pertanto, persone normali poste in certe condizioni, possono agire in modo malvagio pur non essendo persone violente o sadiche. Per dirla con le parole di Milgram: “[…] ciò che la Arendt definisce ‘banalità del male’, è una realtà assai più diffusa di quanto si vorrebbe credere” (Milgram, 1974, p. 7).

L’esperimento carcerario di Stanford

Un altro famoso esperimento è l’Esperimento Carcerario di Stanford del 1971 (Zimbardo, 2007) che prevedeva l’allestimento nell’Università di Stanford, di un finto carcere. Sarebbe dovuto durare due settimane, ma venne interrotto al quinto giorno per le drammatiche conseguenze. I partecipanti, che da un’analisi preliminare erano risultati studenti senza alcun problema psicologico, avrebbero ricoperto il ruoli di “guardie” e “detenuti”, secondo un’assegnazione casuale. Accadde che, dopo meno di tre giorni, gli studenti andarono oltre la pura recitazione del ruolo, identificandosi con esso. Si assistette a tentativi di rivolta, scioperi della fame, e soprattutto a vessazioni sadiche da parte delle “guardie” nei confronti dei “detenuti” e detenuti che iniziarono a manifestare disturbi psichici, tanto da dover rilasciarne uno già il giorno successivo l’inizio dell’esperimento.

Da bravi ragazzi e guardie sadiche: spiegazioni

Zimbardo evidenzia alcuni fattori determinanti per spiegare quanto osservato:

  • Potere delle regole. Le regole definiscono ciò che è accettabile, inaccettabile e punibile. Con il tempo le regole acquistano forza.
  • Ruoli. I ruoli caratterizzano le nostre vite: siamo padri, madri, figli, dipendenti, capi, ecc. Possiamo calarci a tal punto nel ruolo tanto da “giustificare” la responsabilità delle nostre azioni: ”Non ero veramente io in quel momento ad agire, ma mi attenevo al ruolo che ricoprivo”.
  • Anonimato. Permette agli individui di ridurre la responsabilità individuale e lasciarsi andare ad azioni antisociali. L’anonimato delle “guardie” nell’esperimento di Zimbardo, veniva favorito, ad esempio, dagli occhiali scuri e dalle casacche simili indossati, così come dal linguaggio impersonale in uso presso i “detenuti”, che dovevano rivolgersi a loro con l’espressione: “Signor agente penitenziario”.
  • Dissonanza cognitiva (Festinger, 1957). Stato di tensione psicologica che tentiamo di ridurre, quando si verifica una discrepanza fra ciò che pensiamo e il nostro effettivo comportamento. Nel finto carcere di Stanford, le “guardie” si impegnavano in azioni dissonanti con le loro convinzioni personali (ad esempio: ”non è giusto far del male ad un proprio simile” da un lato, e il sapere di star vessando i “detenuti”, dall’altro). Ciò le portava a ridurre la dissonanza attraverso “giustificazioni” alle loro azioni (ad esempio: ”se le sto punendo è perché se lo meritano”).
  • Approvazione sociale. Il bisogno di approvazione è una forza molto potente (Asch, 1955). Piacere, voler far parte, può indurre ad azioni scellerate o sciocche.
  • Deumanizzazione. Processo psicologico consistente nel ritenere che gli altri non abbiano i nostri stessi sentimenti, che siano “altro” da noi, dei “non umani”. Le relazioni deumanizzate sono prive di contenuto empatico, facilitando azioni vessatorie e distruttive.

Conclusioni

In base a quanto detto, si può essere d’accordo con Zimbardo quando afferma: ”[…] qualunque atto che un essere umano abbia commesso, per quanto orrendo sia, può commetterlo chiunque di noi, nelle circostanze situazionali giuste o sbagliate. Saperlo non giustifica il male; piuttosto, lo democraticizza, dividendone la colpa fra agenti normali invece di dichiararlo ambito esclusivo di devianti o despoti: loro ma non noi” (Zimbardo, 2007, p. 318). E’ possibile ad esempio che la deumanizzazione, amplificata dalla propaganda, abbia avuto un ruolo facilitante la persecuzione e lo sterminio degli Ebrei, visti come esseri inferiori, così come l’uso del linguaggio eufemistico  delle SS dove, al posto di parole come “uccisione” o “sterminio”, ne usavano di più neutre come “soluzione finale” o “trattamento speciale” oppure  “deportazione” che lasciava il posto a “trasferimento” o “lavoro in oriente” (Arendt, 1963). 

Bibliografia

Arendt H. (1963), “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, Milano, Feltrinelli Editore, (trad.it 2015)

Asch, S. (1955), Opinions and social pressure, Scientific American, November, pp.31-35

Bauman, Z. (1989), “Modernità e olocausto”, Bologna, Il Mulino, (trad.it. 2010)

Festinger, L. (1957), “Teoria della dissonanza cognitiva”, Bologna, Il Mulino, (trad.it. 2001)

Le Bon, G. (1895), “Psicologia delle folle”, Massa, Ed. Clandestine, (trad.it. 2014)

Milgram, S. (1974), “Obbedienza all’autorità”, Milano, RCS libri, (trad.it. 2007)

Zimbardo, P. (2007), “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?”, Milano, Raffaello Cortina, (trad.it. 2008)



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