L’invisibile trappola dell’autostima

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L’invisibile trappola dell’autostima

Sono stati scritti centinaia di articoli sull’autostima ed altrettante pubblicazioni sul tema, dai titoli spesso d’impatto, riempiono gli scaffali delle librerie suggerendo strategie più o meno efficaci su come aumentare la propria autostima. Nel leggere sia gli uni che gli altri, si ha l’impressione che il concetto di autostima implichi una valutazione di sé che, se eccessiva, porta a quella che Jung definì “ipertrofia dell’Io” mentre nel caso inverso, contribuisce a vissuti di inadeguatezza, tristezza, timore delle relazioni sociali e così via in quanto si assisterebbe ad una diminuzione del proprio valore personale. Ed è proprio in questi due concetti che si nascondono le trappole dell’autostima.

Origine del concetto di autostima

Il concetto di “autostima” è forse tra i più popolari presso il grande pubblico. Non è raro, infatti, che termini in uso in psicologia entrino a far parte della cultura popolare. Ne sono un esempio il concetto di “sentimento di inferiorità” di Alfred Adler (Adler, 1912) o quelli junghiani di “introversione” ed “estroversione” (Jung, 1921). E’ William James uno dei primi studiosi a confrontarsi con il tema dell’autostima che definisce come il rapporto tra il Sè percepito e il Sè ideale (James, 1890). Il primo rimanda a come vediamo noi stessi, le nostre caratteristiche, le nostre abilità; il secondo a come vorremmo essere. Più è ampio il divario tra questi due aspetti di sé, più la persona sperimenterà una bassa autostima.

Valutazione di sè e valore personale

L’autostima, implicando un’ autovalutazione di sé, una valutazione sul proprio valore personale, porta con sé anche la sua nemesi, vale a dire il non valore. Ed ecco la trappola che silenziosa si muove tra le maglie dell’autostima. Tanto il valore quanto la mancanza di valore sono premesse, supposizioni, definizioni arbitrarie. Per chiarire il concetto riporto integralmente un esempio di Ellis:”[…] se siamo bravi giocatori di pallacanestro, altri appassionati di quello sport possono apprezzarci moltissimo e pensare che siamo in gamba, mentre gli appassionai di baseball, di scacchi o di filosofia possono considerarci una nullità. Oppure, se siamo ebrei, possiamo essere giudicati criminali nella Germania nazista o da qualche altro gruppo antisemita, mentre nel moderno stato di Israele passiamo per persone degnissime” (Ellis, 1962, p.116). In base a quale elemento possiamo valutarci? Non ci sono parametri di riferimento stabili e oggettivi che consentano di stabilire il valore di un essere umano.

Accettazione incondizionata

Ipotizziamo di utilizzare la formula “autostima=competenze” per la quale la nostra autostima dipende in larga parte da ciò che sappiamo fare bene. Avremo comunque un’equivalenza arbitraria (chi la stabilisce?) che necessiterebbe, inoltre, di un ulteriore livello di definizione (quali competenze? In che settore? Importanti per chi?) e ad ogni buon conto i fatti sembrano dimostrare che molte persone incompetenti, incapaci di padroneggiare quasi ogni situazione, si stimano lo stesso e si criticano assai meno di tante altre più competenti. Se ci consideriamo “degni di valore”, con molta probabilità ci sentiremo bene e forse anche felici. Ma giudicandoci “degni” introduciamo anche il concetto di “indegnità” rischiando di creare inutile sofferenza. Invece di considerarci degni/indegni di valore (cosa non dimostrabile su basi scientifiche) o di stimarci/svalutarci in relazione ad un criterio inevitabilmente soggettivo o culturalmente definito, la soluzione più efficace, ma anche più difficile, risulterebbe non valutarci affatto e accettarci incondizionatamente.

 

BIBLIOGRAFIA
Adler, A. (1912), Il temperamento nervoso, Milano, RCS (trad.it. 2007)
Di Giuseppe R.A., Doyle K.A., Dryden W., Backx W. (2014), Manuale di terapia razionale emotiva comporamentale, Milano, Raffaello Cortina
Ellis, A. (1962), Ragione ed emozione in psicoterapia, Roma, Astrolabio (trad.it. 1989)
Ferrari, G.C., William James (1842-1910), in “Rivista di Psicologia”, 6.
James, W. (1890), Principi di psicologia,a cura di Giulio Preti, Milano, Principato Editore, 2004
Jung, C.G. (1921), Tipi psicologici, Roma, Newton Compton (trad.it.2003)



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