Sono fatto così: le “etichette” che non ci aiutano a crescere

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Sono fatto così: le “etichette” che non ci aiutano a crescere

“Mettetemi un’ etichetta e mi avrete annullato”, scriveva Søren Kierkegaard. Il filosofo danese metteva l’accento sulle etichette che gli altri ci cuciono addosso, ma non è necessario che siano gli altri a farlo. Noi stessi, infatti, abbiamo sviluppato una notevole capacità di auto-etichettamento!

Etichette quotidiane

Siamo così abituati ad auto-etichettarci che neanche ce ne accorgiamo più. In fondo, fa parte del nostro linguaggio quotidiano. Queste valutazioni globali su di sé o sugli altri (Ellis, 1962) possono assumere la forma di svalutazione o condanna: sono un incapace, sono stupido, lui è un delinquente. Oppure mantenersi più “neutre”: sono timido, sono pigro, sono un orso e così via. Ognuno avrà la sua lista. Le caratteristiche che le accomunano sono almeno due:

  • Si parte da una valutazione di un comportamento e lo si generalizza a tutta la personalità. Es.:”Ho fatto una cosa stupida e quindi sono una persona stupida”.
  • Ci si incasella dentro uno schema fisso negando così qualsiasi possibilità di cambiamento. Es.:”Sono una persona spregevole”, implica una sorta di “essenza” o anima spregevole. Cosa questa che, oltre a non essere dimostrabile, sottintende che ci si comporterà sempre e in ogni situazione in modo spregevole. E anche questo è tutto da dimostrare.

Etichette “buone”

Ci sono anche etichette “buone”: sono simpatico, sono competente, sono affidabile. Possono aiutarci è vero, ma nascondono un rischio: se ad esempio sbaglio in un compito, il passaggio totalizzante da “sono competente” a ”sono un incompetente” è dietro l’angolo…
Korzybski (1933) mette addirittura in guardia da un uso eccessivo del verbo essere, fino a formulare un nuovo linguaggio, English-Prime, che esclude ogni forma del verbo to be! L’autore suggerisce di sostituire affermazioni come “Sono una persona buona” con “Come persona a volte mi comporto bene, a volte male, a volte né bene né male”. A ben vedere, è una flessibilità che ci mette al riparo da etichette totalizzanti.

Come e perchè manteniamo le nostre etichette

Secondo Dyer (1976) quattro sono le frasi tipiche che accompagnano le nostre etichette:

  • “Questo sono io”
  • “Sono sempre stato così”
  • “Non posso farci nulla”
  • “E’ nella mia natura”

Ogni volta che ricorriamo ad una delle quattro stiamo in realtà affermando anche: ”E voglio continuare ad essere come sono”. Fine dei giochi. Perché accade questo? Molto probabilmente ricaviamo dei vantaggi dall’ etichettamento. Eccone alcuni:

  • Etichettare l’altro significa definirlo, spiegarne il comportamento e quindi controllarlo. Consente di ridurre l’imprevedibilità.
  • Etichettarci ci evita il rischio del cambiamento. Un vecchio proverbio recita: “Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia, ma non sa quel che trova”. Paradossalmente è più rassicurante definirsi incapaci che rischiare di mettersi in gioco.
  • Etichettare giustifica il nostro comportamento di fronte agli altri e a se stessi: la frase “ho sempre fatto così” ci evita di interrogarci sui motivi del nostro comportamento ed è stretta parente del punto precedente.

Liberarci dell’etichettamento

Se davvero vogliamo crescere e non autolimitarci possiamo iniziare a:

  1. Tenere un diario quotidiano di tutte le frasi che ci segnalano un etichettamento.
  2. Fare attenzione all’uso del verbo essere e iniziare a costruire frasi facendo riferimento al comportamento. Es.: “Sono un incapace”—> “Ho fatto una errore”.
  3. Se proprio siamo dipendenti dal verbo essere, aggiungiamo alle nostre frasi parole come “anche”, “questa volta”, “posso essere”. Es.: “Sono un asociale”—>”Questa volta sono stato asociale. Posso essere anche diverso in circostanze diverse”.
  4. Sostituire “Io sono così” con “Fino ad oggi ho scelto di essere così”.

Conclusioni

Disse una volta Mark Twain:”Smettere di fumare è facile. Io ci sono riuscito migliaia di volte”. Cambiare le vecchie abitudini richiede impegno, allenamento, costanza e non è detto che non si ripresentino. Auto-connotarsi è una consuetudine difficile da cambiare. Difficile, ma non impossibile. Di sicuro, in caso di ricaduta in vecchi schemi, etichettarci con un classico “sono un incapace” non ci aiuterà.

 

BIBLIOGRAFIA

Di Giuseppe R.A., Doyle K.A., Dryden W., Backx W. (2014), “Manuale di terapia razionale emotiva comporamentale”, Milano, Raffaello Cortina

Dyer W.W., (1976), “Le vostre zone erronee. Guida all’indipendenza dello spirito”, Milano, Bur (trad.it. 2017)

Ellis, A. (1962), “Ragione ed emozione in psicoterapia” Roma, Astrolabio, (trad. it. 1989)

Korzybski A. (1933), ”Science and sanity. An Introduction to Non-Aristotelian Systems and General Semantics”, Institute of general semantics, V Ed.



2 Comments to "Sono fatto così: le “etichette” che non ci aiutano a crescere"

  1. Gino
    12 Novembre 2017 at 23:35

    Ho più di qualche dubbio che armeggiare con la grammatica e la sintassi sia sufficiente ad aprire nuove possibilità d’essere, altrimenti il caro buon Ricoeur -che certamente qualcosina di linguistica la conosceva- non avrebbe dedicato parte della sua vita a riflettere sul rapporto dinamico tra medesimezza e ipseità e oggi forse non avremo quella magnifica opera che è la trilogia di Tempo e Racconto. Non basta inventarsi un altro modo di dire né mettere in sequenza una diversa storia possibile di sé per cambiare.

  2. Pietro
    13 Novembre 2017 at 8:34

    Ciao Gino e grazie per aver condiviso il tuo punto di vista. Concordo con te sul fatto che giocare con grammatica e sintassi non sia condizione sufficiente a promuovere cambiamento. Credo che in psicoterapia gli ingredienti per mutare vecchi schemi siano tanti e complessi da integrare. Tuttavia, penso che un’attenzione al linguaggio possa essere uno di questi anche se non l’unico. Ti confesso di non aver mai letto la trilogia di Tempo e Racconto e il tuo intervento mi ha incuriosito. Non è escluso che a breve l’opera entrerà nella mia libreria. Un saluto

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